sabato 13 giugno 2015

TTIP, atto secondo



Per un gruppo di attivisti della rete che si batte contro l’accordo di libero scambio tra Europa e Stati Uniti, il TTIP è il cane da guardia delle multinazionali. L’installazione, del gruppo anti trattato, è stata messa in piedi all’esterno del Parlamento europeo, nel giorno in cui si sarebbe dovuto votare la sua posizione sul trattato, ma che è stato rimandato a causa dei troppi emendamenti ricevuti.

L’emendamento socialista sull’Isds, ossia l’arbitrato tra investitori e Stato, clausola contro la quale i critici del TTIP si stanno battendo duramente, ha mandato nella più totale confusione i due principali gruppi del Parlamento europeo, il Ppe e il S&D. Infatti,  l’emendamento presentato da Bernd Lange, propone «una soluzione permanente per la risoluzione delle controversie tra investitori e Stati, senza utilizzare il sistema privato di risoluzione delle controversie tra investitore e Stato (Isds), che sia soggetta ai principi e al controllo democratici».

L’emendamento proposto stava guadagnando ampi consensi anche tra il gruppo dei popolari, così da creare una spaccatura sia all’interno del gruppo socialista che nel gruppo popolare, mettendo a  rischio la possibilità di far approvare la relazione nel suo insieme.

Il leader di Podemos, Pablo Iglesias, presente in Parlamento ha tuonato dicendo che «ad alcune persone la democrazia piace solo quando sono sicure di vincere, poi quando i risultati del voto sono diversi da quelli previsti la democrazia non piace più l’utilizzo e si usano espedienti tecnici per rimandare il voto, ma si tratta solo di un trucco».


Dopo il rinvio di questo voto, i sostenitori del TTIP al Parlamento hanno capito di non avere più la maggioranza per approvarne le linee guida e che la mobilitazione di questi giorni di cittadini e di movimenti ha giocato un ruolo fondamentale nell’accentuare ancora maggiormente le divergenze. 

lunedì 18 maggio 2015

Quale futuro per il TTIP?


Anche se è sempre più difficile imbattersi nella sigla TTIP, ciò non vuol dire che il Trattato Transatlantico per il Commercio e gli Investimenti non sia più una delle priorità dei nostri governanti europei.

Avvolto nella segretezza sin dalla sua nascita, il TTIP continua ad essere un mistero anche per gli stessi membri al Parlamento Europeo.

Per coloro che giustificamene se lo sono perso, il TTIP è un accordo commerciale di libero scambio tra l’Unione europea e gli Stati Uniti d’America le cui negoziazioni sono iniziate nel giugno 2013 e tutt’ora sono in fase di discussione.

Data la segretezza in cui i colletti bianchi si muovono, si hanno ben poche certezze su cosa conterrà il trattato, tuttavia tra le poche sicurezze che si hanno, si sa che esso punterà alla creazione di un mercato unico, riducendo i dazi doganali e rimuovendo, in una vasta gamma di settori, le barriere non tariffarie, ossia le differenze in regolamenti tecnici, norme e procedure di omologazione, standard applicati ai prodotti, regole sanitarie e fitosanitarie. Ciò renderebbe possibile la libera circolazione delle merci, faciliterebbe il flusso degli investimenti e l’accesso ai rispettivi mercati dei servizi e degli appalti pubblici.

Sicuramente non mancano posizioni contrastanti riguardo le finalità di tale accordo. Alcuni sostengono che questo faciliterebbe i rapporti commerciali tra il vecchio ed il nuovo continente, portando opportunità economiche, sviluppo, un aumento delle esportazioni e anche dell’occupazione, mentre altri denunciano che ci sia il pericolo reale che le legislazioni di Stati Uniti ed Europa si pieghino alle regole del libero scambio stabilite da e per le grandi aziende europee e statunitensi. Se il progetto avrà successo, sarà la più grande area di libero scambio esistente, poiché UE e USA rappresentano circa la metà del PIL mondiale e un terzo del commercio mondiale.

Va sicuramente sottolineato come, al di là della semplice opportunità economica e di sviluppo per i due continenti, il trattato pone anche una questione geopolitica. Washington non vuole solo conquistare una buona fetta del mercato europeo, ma anche allontanare ogni possibile riunificazione dell’Europa con la Russia, e ancora di più contenere l’avanzata della Cina. Infatti, tra il 2000 e il 2008 il commercio internazionale della Cina si è quadruplicato, avendo delle ripercussioni notevoli sia sulle sue esportazioni che sulle importazioni. Di conseguenza gli Stati Uniti hanno perso la loro leadership di potenza commerciale mondiale che durava da un secolo.

Prima della crisi internazionale scoppiata nel 2008, gli USA erano il socio commerciale più importante per 127 Stati, mentre la Cina lo era solo per 70. Questa tendenza si è invertita, basti pensare che oggi la Cina è il socio commerciale più importante per ben 124 Stati, mentre gli USA solo per 76. Se l’economia di Pechino continuerà a crescere, nei prossimi dieci anni addirittura potrebbe minacciare la supremazia del dollaro.

Le parti in causa desiderano chiudere l’accordo prima della fine del mandato di Barack Obama.  Washington non vuole apparire come il nuovo colonizzatore, tuttavia vuole blindare una grande zona di libero scambio, dove i prodotti di Pechino o di altri Paesi emergenti avrebbero difficile accesso.
In questo turbinio di decisioni ed incontri segreti, una decisiva nota di trasparenza proviene dalla società civile europea e dalla stesso partito democratico americano. Infatti attraverso le pressioni provenienti dai cittadini europei, si è ottenuto recentemente la declassificazione di un solo documento riguardante i principali contenuti del TTIP e ciò che esso comporta per il contraente europeo. Mentre gli uomini del congresso del partito democratico, hanno bloccato il piano del presidente che avrebbe voluto la creazione di una apposita agenzia, la Trade Promotion Authority, che gli avrebbe permesso di gestire i trattati in solitudine, chiedendo il consenso del Congresso solo per l’approvazione definitiva del documento.


Anche se è’ innegabile riconoscere il potenziale di crescita che il TTIP può avere sulle economie coinvolte, tuttavia propria l’eccessiva segretezza e la quasi totale assenza di interesse delle istituzione europee da quanto espresso dai suoi cittadini  in varie manifestazioni Stop TTIP, lascia presagire la presenza nel trattato di un eccessiva tutela degli interessi della grandi multinazionali a discapito non solo dei piccoli produttori, che in molti Paesi rappresentano l’ossatura delle economie nazionali, ma anche della tutela del cittadino. 

sabato 18 aprile 2015

Prove di dialogo



Dopo ben 55 anni dalla rivoluzione portata a compimento da Fidel Castro, Stati Uniti e Cuba riprendono le loro relazioni diplomatiche. Anni caratterizzati da reciproche accuse, sospetti e sanzioni che sono sfociate nell’embargo del 1962 contro Cuba. Proprio il 1962, l’anno della crisi missilistica di Cuba, ci fa capire anche a distanza di molti anni di come le relazioni tra i due Paesi, più l’Unione Sovietica, erano talmente lacerati e tesi da poter scatenare una nuova guerra. Quel contesto storico caratterizzato dagli anni della Guerra fredda, e dall’eterna rivalità tra Russia e Stati Uniti, non può essere trasposto ed applicato ai giorni nostri.

L’incontro  tra il presidente statunitense Barack Obama e quello cubano Raúl Castro, che si è svolto l’11 aprile al vertice delle Americhe di Panamá, ha segnato il momento di massima distensione nei rapporti tra i due paesi negli ultimi decenni e ha dimostrato che la normalizzazione delle relazioni diplomatiche è possibile ed auspicabile.

Alcuni giorni dopo lo storico faccia a faccia, Barack Obama ha deciso di cancellare Cuba dalla “lista nera” dei Paesi che sostengono il terrorismo. Una decisione fortemente richiesta dal governo cubano che ha espresso soddisfazione, ma allo stesso tempo negli Usa ha anche sollevato aspre critiche da parte di diversi esponenti repubblicani, in particolare di coloro che sperano di ottenere la candidatura alla elezioni presidenziali del 2016, come il senatore conservatore Marco Rubio. Infatti, il candidato repubblicano di origine cubane, ha sostenuto  che il ripristino dei legami con l’Avana rafforzerebbe solamente la posizione politica del regime castrista. Inoltre sottolineando la questione dell’embargo, dato che spetta al Congresso autorizzarne la rimozione, secondo Rubio il Congresso non ha nessuna intenzione a procedere verso tale cancellazione.

Anche se l’eliminazione di Cuba dalla lista dei paesi che appoggiano il terrorismo ha un forte valore simbolico, tuttavia i suoi effetti pratici saranno limitati. Infatti la maggior parte delle sanzioni finanziarie contro l’Avana sono inserite nell’embargo commerciale imposto da Washington, che rimane ancora in vigore.

Dopo le ultime elezioni di mid-term, che hanno visto la vittoria repubblicana al Congresso, molti analisti hanno definito Obama un’anatra azzoppata. Invece, a distanza di alcuni mesi ed in particolare in politica estera l’amministrazione Obama sta lasciando la sua eredità. Intrappolato in casa propria dal blocco repubblicano, Obama si sta giocando le sue carte al di fuori degli Stati Uniti. Un primo accordo sul nucleare iraniano e la successiva revisione della rigida politica anti-cubana, sono importanti punti a favore sino al termine del suo mandato.

La ripresa di influenza nel continente sud-americano da parte degli Stati Uniti può essere letto sotto due aspetti: la solidificazione cinese nel continente e la perdita di potere nella regione da parte del Venezuela di Nicolas Maduro. Per quanto riguarda il primo aspetto, l’avanzamento della Cina è evoluto e sta mettendo le radici. Sarebbe fuorviante pensare ad una Cina in versione Unione Sovietica, innanzitutto perché la mentalità da Guerra fredda non esiste più  e poi è finito il tempo in cui si prendevano decisioni diplomatiche su base ideologica. Al vertice delle Americhe, la maggior parte dei leader presenti ha mostrato un nuovo desiderio di pragmatismo, anche se non sono mancate accuse anche da parte del Venezuela contro l’imperialismo statunitense. Tuttavia da questo vertice è emerso che Caracas sta perdendo peso nella regione e che molti altri Paesi sud americani non vogliono schierarsi contro Washington anche perché la ripresa statunitense, a differenza di quella europea, cinese e russa, è la migliore occasione per aumentare le esportazioni e attrarre nuovi investimenti.


Obama ha annunciato «né il popolo americano né quello cubano vengono aiutati da una politica che ha radici in eventi che hanno avuto luogo prima che la maggior parte di noi fosse nata», tuttavia al di la delle parole, nella pratica sia per Washington che per l’Avana non sarà facile superare il loro turbolento passato.  






sabato 21 marzo 2015

Israele sempre più a destra



«Con me primo ministro, non ci sarà uno Stato palestinese». Per tutta la campagna elettorale tratteggiata da toni razzisti, Benjamin “Bibi” Netanyahu ha diffuso questo messaggio estremo, sconfessando anni di dichiarazioni ufficiali dei governi israeliani. Dopo un testa e testa sino all’ultimo voto e contro tutti i pronostici, Netanyahu ha nuovamente vinto nelle elezioni governative israeliane, ottenendo 30 seggi al Knesset, rispetto al candidato di centrosinistra Isaac Herzog che ne ha ottenuti 6 in meno.

“Bibi” è così il primo ministro di Israele per il terzo mandato consecutivo e per la quarta volta, ed ha già promesso che formerà un governo di sola destra, con l’inclusione anche dei partiti nazionalisti e religiosi.

Indicendo elezioni anticipate, l’intenzione del premier israeliano era quella di sbarazzarsi dei partiti di centro per tornare ad essere il padrone indiscusso della destra israeliana e dell’intera scena politica nazionale. Con queste elezioni Netanyahu non solo è riuscito nel suo intento, ma ha anche posto termine alle discussioni interne, mettendo un punto al dialogo con il popolo palestinese e bloccando ogni possibile accordo sul nucleare con l’Iran.

La campagna elettorale di Netanyahu si è basata esplicitamente sul rifiuto di far nascere uno stato palestinese. Il premier ha messo in guardia i suoi elettori di destra dal pericolo di un governo di sinistra appoggiato dagli arabi. Ancora ad urne aperte “Bibi” ha trasmesso un video in cui affermava che gli arabi stavano andando in massa a votare e chiedeva ai suoi sostenitori di recarsi alle urne per fare in modo che la destra potesse rimanere salda al potere. Il neo premier ha così definitivamente dimostrato di ritenere parte dei suoi cittadini, ossia gli arabi, degli intrusi nel territorio israeliano. Eppure coloro sono cittadini di Israele.

C’è però da sottolineare come in questo aspro contesto, per la prima volta una lista araba unitaria ha guadagnato forti consensi, diventando il terzo partito del paese, nonostante il tentativo di Netanyahu di mettere i due popoli che abitano in quelle terre gli uni contro gli altri. Nonostante ciò la lista araba non ha nascosto la sua delusione per i risultati finali delle elezioni, in quanto la vittoria della sinistra di Isaac Herzog gli avrebbe permesso la possibilità di salire al governo.

La campagna elettorale della destra si è avvalsa anche delle teorie complottiste, accusando la comunità internazionale di cospirare contro Netanyahu e contro il suo governo. Critiche arrivate dopo settimane di scontro aperto con l’amministrazione americana di Obama, la quale ha fortemente disapprovato il discorso tenuto da Netanyahu al Congresso, in cui quest’ultimo aveva tuonato contro qualsiasi accordo sul nucleare con l’Iran, minacciando anche un possibile intervento armato israeliano contro l’Iran per assicurarsi la sopravvivenza del popolo ebraico.

Israele con la nuova vittoria di Netanyahu cade nelle più becere teorie complottiste, isolandosi sempre più sulla scena internazionale. Come ben scrive Jacopo Zampini giornalista di Internazionale,  «in un Medio Oriente scosso dalle guerre in Siria e Iraq, da milioni di profughi, dalla nascita del califfato del gruppo Stato islamico, dalla rivalità tra sciiti e sunniti, dall’emergere dell’Iran come potenza regionale, dalle rivalità tra i sauditi e gli egiziani da una parte e la Turchia e il Qatar dall’altra, l’ultima cosa di cui si sentiva il bisogno era quella di un Israele ancora più isolato ed estremista».






mercoledì 28 gennaio 2015

Benvenuto Tsipras



I cittadini greci hanno scelto Syriza, la coalizione della sinistra radicale, la sola ed unica speranza di cambiamento e discontinuità rispetto alle politiche di austerity che hanno indebolito e annichilito, non solo il tessuto economico del Paese, ma anche la tenuta sociale di una popolazione in piena crisi umanitaria. La popolazione greca con queste elezioni ha voluto gridare che un’Europa diversa, rispetto a quella che ha ampliato le diseguaglianze sociali, è possibile.

Syriza è l’alternativa, anche rispetto alle politiche xenofobe e nazionaliste capeggiate da Alba dorata nella stessa Grecia, Marine Le Pen in Francia e dalla Lega di Matteo Salvini in Italia.

Durante questi anni di crisi economica, sociale e morale, con un tasso di corruzione altissimo, il partito Syriza ha avuto la pazienza di aspettare il suo turno, rimanendo all’opposizione e non cadendo alle lusinghe dei partiti al governo.

Il leader di Syriza, Alexis Tsipras, ha trionfato nelle elezioni che si sono tenute domenica, e solo per un soffio non ha raggiunto la maggioranza assoluta, fermandosi a quota 149 seggi, due in meno rispetto alla quota minima per formare un esecutivo senza bisogno di alleanze.

Nea Dimokratia, al governo dal giungo 2012 ha pagato le conseguenze delle scellerate politiche neoliberiste adottate, ottenendo solo 76 seggi, mentre al terzo posto si è piazzato il partito di estrema destra Alba Dorata con 17 seggi, perdendo ben 3 punti percentuali rispetto alle elezioni politiche di quasi tre anni fa.

Bisogna poi ricordare che a votare è andato poco più del 60% dei greci, di fatto una cospicua fetta della popolazione ha dimostrato di stare con Tsipras, però un’altra buona parte è rimasta a casa, sfiduciata dal corso degli eventi che si sono abbattuti in modo catastrofico sulla Grecia. Un importante compito che spetterà a Tsipras e al suo governo è dunque anche quello di far rinascere la fiducia fra i suoi cittadini, rendendoli così protagonisti interessati degli affari pubblici e del processo decisionale.

La vittoria di Syriza, passerà alla storia, ma riuscirà nella realizzazione del suo ambizioso progetto di governo?

Tsipras ha bisogno dell’appoggio di un altro partito per la formazione del suo esecutivo. L’accordo è stato raggiunto con il partito nazionalista dei greci indipendenti, Anel, nati nel 2012 dalla scissione avvenuta all’interno del partito di Nea Dimokratia. Benché politicamente distanti, le due formazioni del nuovo governo sono uniti dal fronte comune anti-austerity e contro il memorandum, cioè il patto della Grecia con la troika. Anche se si tratta di una coalizione insolita e innaturale, la creazione di questo governo può andare al di là della semplice ideologia, per il perseguimento del bene comune.
Potendo contare su un totale di 162 seggi su 300, rispettivamente 149 di Syriza e 13 di Anel, Tsipras già dai prossimi giorni potrebbe essere al lavoro con un esecutivo nel pieno dei poteri. Intanto, il leader di Syriza ha prestato giuramento davanti al presidente greco Karolos Papoulias.

Le reazioni del giorno dopo provenienti dalle varie istituzioni internazionali, hanno tutte una sola linea di pensiero: la Grecia deve rispettare i patti presi con l’Europa, senza lasciar spazio ad una possibile rinegoziazione dei termini, incurante di quanto scelto dal popolo greco, toccherà a Tsipras, europeista convinto, mettere in atto la giusta strategia politica per dimostrare l’infondatezza delle paure dell’Unione al suo progetto di riforme.

Per il momento però compito del nuovo governo greco è quello di rispettare la speranza e l’dea di cambiamento che milioni di greci hanno espresso andando a votare.


venerdì 23 gennaio 2015

Attendendo la Rivoluzione



Andando alla scoperta della Galizia durante le passate festività natalizie, casualmente mi sono imbattuto nel giornale Faro de Vigo. Subito sono stato attratto dall’articolo di Anxel Vence in cui si inneggiava ad una possibile rivoluzione Latinoeuropea.

Vence sostiene, che come accaduto nei Paesi Latinoamericani, presto anche il sud Europa sarà investito da una rivoluzione che cambierà tutti i sistemi di governo fino ora vigenti. Per il giornalista, Grecia, Spagna, Italia e Francia, nonostante le loro differenze sono tutti Paesi che saranno chiamati ad abbandonare il tradizionale sistema di alternanza di partito al potere, per sostituirlo con movimenti di rottura che offrano soluzioni valide per la risoluzione dei problemi politici, economici e istituzionali che li affliggono.

La settimana che sta per concludersi sarà certamente caratterizzata da un terremoto politico che investirà l’intera Unione europea, le elezioni anticipate in Grecia, che si terranno il 25 gennaio, potrebbero consegnare il potere nelle mani di un politico giovane e con poca esperienza: Alexis Tsipras.

Prima del voto di domenica si preannunciano giorni infuocati. La polarizzazione tra la destra e la sinistra è ai massimi livelli, e lo scontro frontale avviene oramai apertamente, persino nei dibattiti pubblici.

Le critiche a Syriza e al suo leader Tsipras, non arrivano solo dai partiti di destra, ma anche da quelli di sinistra. Il Kke, il partito comunista greco, tradizionalmente euroscettico, a favore della cancellazione unilaterale del debito pubblico, del disimpegno dall’Ue e dalla Nato, accusa Tsipras di avere posizioni troppo morbide nei confronti dell’Europa, e fin dal principio ha escluso ogni possibile collaborazione di governo.

A non rifiutare possibili alleanze con Syriza è il Pasok, pronto a fare la stampella di tutti nel prossimo esecutivo ed ora al governo con la Nuova Democrazia di Samaras. Il leader del Pasok, Evangelos Venizelos, ha affermato che appoggerà il prossimo governo di coalizione, plausibilmente con Syriza, se non ci saranno rischi per il futuro della Grecia e dell’Europa, ed in particolar modo se si segue un piano di uscita dalla crisi con tutti i partner europei.

A livello internazionale, anche se permangono paure e dubbi sulla possibile fuoriuscita della Grecia dalla zona euro, la cosiddetta Grexit, si è aperta una speranza per una probabile rinegoziazione del debito greco.

Guardare ad un’Europa senza la Grecia, è come pensare ad un’Europa senza radici. In questo contesto sociale ed economico di estrema durezza, tutta l’Unione deve dimostrare la sua solidarietà verso i più deboli, per potersi così affermare come grande entità.

Una vittoria netta di Tsipras non è ancora assicurata, ma al momento sembra l’unica personalità in campo adatta a dare una certa stabilità e prospettive future alla Grecia.

Considerando che la legge elettorale greca accorda un premio di 50 seggi alla formazione più votata e che i voti raccolti dalle forze politiche rimaste fuori dal Parlamento vengano divisi tra i partiti che superano la soglia di sbarramento del 3 %, Syriza dovrà ottenere tra il 35 e il 39% dei consensi per formare un governo da solo. Se non riuscisse a prendere i voti necessari si formerebbe un governo di coalizione in un equilibrio perennemente precario, con il rischio per la Grecia di nuove elezioni elettorali. Tale ultimo scenario potrebbe essere il collasso per il Paese.

Anche se Syriza nel voto di domenica deve convincere ancora tanti elettori, una nuova Europa potrebbe nascere dalle sponde sud del mar Mediterraneo, e le elezioni in Grecia sono la prima prova per dimostrare se questa rivoluzione dei Paesi Latinoeuropei può prendere il via.



venerdì 26 dicembre 2014

Tsipras e la "minaccia" greca


Nelle scorse settimane, e più precisamente il 9 dicembre scorso, il premier greco Antonio Samaras, leader del partito liberal conservatore Nuova Democrazia al governo con il Pasok, partito socialista, ha annunciato le nuove elezione per il rinnovo della carica di Presidente della Repubblica. Dopo la notizia, la borsa di Atene ha perso più di 12 punti percentuali, portando anche al ribasso dei titoli nei mercati degli altri Paesi del vecchio continente. Il risultato complessivo alle parole di Samaras è stato il caos internazionale, a livello economico e politico.
Il timore dei mercati finanziati è dato dalla fondata paura che, nel caso in cui non si dovesse eleggere il nuovo presidente entro il terzo scrutino, la Grecia potrebbe tornare anticipatamente alle urne, con in tal caso, una possibile, anzi probabile, vittoria del partito politico di sinistra: Syriza, guidata da Alexis Tsipras, la più grande novità politica nelle scorse elezioni europee.
Il premier greco Samaras può contare su una maggioranza di 155 voti, insufficienti per far passare il proprio candidato, Stavors Dimas, per sostituire Karolos Papoulias. Infatti per eleggere il nuovo presidente servono almeno 180 voti ed è difficile che Samaras possa arrivarci. I primi due scrutini si sono conclusi con una fumata nera, così se neanche nell’ultimo scrutino, che avverrà il 29 dicembre, non si riuscisse ad eleggere il nuovo presidente, Samaras sarà costretto ad annunciare le elezioni anticipate per il rinnovo dell’intero Parlamento greco.
Prima di entrare nel merito della questione Tsipras e sul perché questo con il suo partito incute tanto timore, è necessario fare il punto della situazione sull’ economia greca dopo il commissariamento da parte della Troika.
Con le politiche di austerità imposte dalla Troika, non si può dire che, dopo 5 anni “drammatici”, l’economia sia tornata brillante, anzi il Paese è in deflazione da due anni, la disoccupazione è superiore al 25%, più di un terzo dei cittadini è a rischio povertà. Tuttavia, secondo il Fondo monetario internazionale nel 2014 il Pil è cresciuto dello 0,6% e l’anno prossimo di quasi il 3%. Dire che la crescita è nulla rispetto a ciò che la Grecia ha subito in termini politici, economici, ma soprattutto sociali, sarebbe riduttivo. Il Paese è stato la cavia della fallimentare politica di austerità imposta dall’ Unione Europea.
E’ in questo contesto che entra in gioca Syriza ed in particolare il suo leader Tsipras, che stando agli ultimi sondaggi sarebbe il più votato in caso di elezioni. Attraverso una buona e non distorta informazione, l’obiettivo di Tsipras è quello di rimanere in Europa per cambiare l’Europa, attraverso la convocazione di una conferenza europea per la ristrutturazione del debito, che riguarda non solo la Grecia ma la maggior parte dei Paesi europei, la fine delle politiche di austerità con l’abrogazione del fiscal compact e un piano europeo per il lavoro e la salvaguardia dell’ambiente.
Al momento non ci resta che attendere la terza votazione che avverrà il 29 dicembre e di conseguenza vedere lo scenario che si aprirà per il popolo greco e per l’intera Europa.
Intanto negli Stati Uniti si registra nel terzo trimestre del 2014 un +5% di Pil, mentre il vecchio continente si dibatte ancora in una crescita quasi assente. L’Europa deve dire basta all’austerità e puntare sugli investimenti, il presidente Obama lo sta facendo senza essere descritto come un sovversivo. Questo è quello che chiede anche Tsipras.